Al farmacista va sempre garantita la possibilità di pubblicizzare la propria farmacia e (soprattutto) i servizi che eroga
La Corte di Giustizia condanna la Polonia per la propria normativa restrittiva in materia di pubblicità delle farmacie ed afferma la libertà del farmacista di effettuare pubblicità sia riguardo alla propria farmacia, sia in relazione ai servizi che essa offre, sempre nel rispetto delle norme deontologiche
Massima
Farmacia - Inadempimento di uno Stato – Articolo 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Articolo 56 TFUE – Libera prestazione dei servizi – Direttiva 2000/31/CE – Commercio elettronico – Articolo 8, paragrafo 1 – Servizio di comunicazioni commerciali fornito da un membro di una professione regolamentata – Normativa nazionale che vieta la pubblicità delle farmacie e dei punti di vendita farmaceutici nonché delle loro attività – Restrizione – Giustificazione – Tutela della salute pubblica – Infondatezza – Libertà di pubblicità della farmacia e dei servizi che offre
La legge polacca sul diritto farmaceutico vieta al farmacista in maniera assoluta qualsivoglia pubblicità, anche mediante internet, non solo delle farmacie, ma anche delle attività e dei servizi svolti all'interno, prevedendo un’ammenda fino a 12.000 euro per chiunque infranga la legge, al punto che le uniche informazioni ammesse sono quelle relative all’ubicazione delle farmacie ed agli orari di apertura.
A seguito di un serrato carteggio tra la Repubblica di Polonia e la Commissione europea, relativo all'illegittimità di tali prescrizioni, nel 2024 la Commissione ricorre dinnanzi alla Corte di Giustizia: è la causa C-200/24, decisa con la sentenza del 19 giugno 2025.
La Commissione sostiene che la normativa polacca è contraria alla disciplina europea ed articola il ricorso sulla base della violazione di tre norme:
1) l’articolo 8 paragrafo 1 della direttiva 2000/31, che consente a chi esercita una professione regolamentata di utilizzare servizi della società dell’informazione per promuovere le proprie attività,
2) l’articolo 49 TFUE, che garantisce la libertà di stabilimento,
3) l’articolo 56 TFUE, che garantisce la libera prestazione di servizi.
Per quanto concerne il primo motivo di ricorso va rammentato che la Corte di Giustizia, già nella propria “sentenza Vanderborght” del 4 maggio 2017 in causa C-339/15, al punto 42 afferma che l’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 consente a chi esercita una professione regolamentata di utilizzare servizi della società dell’informazione per promuovere le proprie attività e, ai punti 43 e 44 di tale sentenza, che le comunicazioni commerciali devono rispettare le regole professionali applicabili alla professione interessata, senza che tuttavia possa mai essere disposto un divieto generale e assoluto di qualsiasi forma di pubblicità online.
Ed infatti la Corte di Giustizia accoglie il primo motivo proposto dalla Commissione indicando che, se è vero che l'art. 8 paragrafo 1 della direttiva 2000/31 stabilisce che le comunicazioni commerciali vanno effettuate solo nel rispetto delle regole relative alla dignità e all’onore della professione regolamentata, nonché nel rispetto del segreto professionale e della lealtà verso i clienti e verso i colleghi, è anche vero che non può essere vietato in modo generale e assoluto ogni tipo di pubblicità online avente l'obiettivo di promuovere l’attività di una persona che esercita una professione regolamentata.
Ciò è tanto vero che il successivo paragrafo 2 del citato art. 8 prevede che gli Stati membri e la Commissione incoraggiano a elaborare codici di condotta aventi l'obiettivo di precisare quali informazioni possono essere fornite a fini della pubblicità, nel rispetto di dette regole professionali; ne discende, secondo la Corte, che il contenuto e la forma della pubblicità possono di sicuro essere inquadrati in regole attinenti alla professione, ma non possono affatto comportare un divieto generale e assoluto, come stabilito dalla legge polacca sul diritto farmaceutico.
Per ciò che riguarda il secondo motivo di ricorso, attinente alla libertà di stabilimento, ed il terzo motivo di ricorso, riguardante la libera prestazione dei servizi, la Commissione sostiene che il divieto assoluto di pubblicità priva sia le persone stabilite in Polonia e sia quelle stabilite in altri Stati membri che intendono aprire in Polonia una farmacia, della possibilità di informare delle loro attività i clienti, e ciò è particolarmente pregiudizievole per la seconda categoria di persone, per le quali l’accesso al mercato in Polonia è reso più difficile, con ciò compromettendo sia la libertà di stabilimento, sia la libera prestazione di servizi.
I due predetti motivi di ricorso vengono affrontati congiuntamente dalla Corte, che parte dalla premessa secondo cui devono considerarsi restrizioni alla libertà di stabilimento e/o alla libera prestazione dei servizi tutte quelle misure che “vietino, ostacolino o scoraggino l’esercizio delle libertà garantite dagli articoli 49 e 56 TFUE”.
Si ha una restrizione, quindi, quando le misure stabilite da uno Stato membro pregiudicano l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri: poiché una normativa nazionale che vieta in modo assoluto ogni tipo di pubblicità per una determinata attività in questo modo restringe la possibilità, per le persone che la esercitano, di farsi conoscere, secondo la Corte si deve ritenere che una tale normativa nazionale comporti una restrizione sia alla libera prestazione dei servizi, sia alla libertà di stabilimento, posto che gli operatori stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica di Polonia, devono compiere sforzi supplementari per farsi conoscere presso clienti residenti in Polonia se intendono aprire una farmacia in Polonia.
A questo punto la Corte passa a considerare se tale restrizione possa essere giustificata da una ragione imperativa di interesse generale che rispetti il principio di proporzionalità.
La Repubblica di Polonia, infatti, nel giudizio invoca il principio della tutela della salute pubblica, per giustificare le (acclarate) restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei servizi; tale principio della tutela della salute pubblica, secondo la Polonia, è valido e proporzionato, giacché è volto da un canto ad impedire il consumo eccessivo di medicinali e, dall’altro canto, a garantire l’indipendenza professionale dei farmacisti da pressioni che possano giungere da parte dei proprietari di farmacie.
Tali tesi, tuttavia, non vengono accolte dalla Corte, che al riguardo afferma un principio importantissimo se lo si applica alla “farmacia dei servizi”.
La Corte, infatti, afferma che le farmacie polacche offrono come servizio le campagne di screening, sicché il divieto di pubblicità, esteso anche ai servizi delle farmacie, è ingiustificato di per sé, perché non ha nulla a che vedere con il consumo di farmaci. Addirittura in una parte della sentenza è affermato che il divieto pubblicità sui servizi favorisce le farmacie presenti su un mercato da molti anni, a scapito di quelle più giovani che intendono entrare nel mercato mediante l'offerta reclamizzata di un “maggior numero di servizi o servizi di migliore qualità”.
Ciò significa che da questa pronuncia della Corte di Giustizia potrebbe trarsi il principio secondo cui una limitazione troppo marcata della pubblicità relativa ai servizi offerti dalle farmacie potrebbe porsi pure in contrasto con le regole della concorrenza.
Per quanto riguarda l'esigenza di contenere l'uso eccessivo di farmaci, poi, la Corte la ritiene non valida, visto che la pubblicità sull'offerta di essi può avvantaggiare le persone in cerca di un maggiore sconto sui farmaci, senza che ciò comporti un aumento della quantità di medicinali acquistati.
Peraltro le norme vigenti anche in ambito europeo sono chiarissime nel prevedere che la pubblicità di un medicinale deve favorirne l’uso razionale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà, e non può essere ingannevole, sicché con tali norme può procedersi a promuovere i medicinali senza tuttavia incitare al loro consumo eccessivo.
Per quanto riguarda infine l'esigenza manifestata dalla Repubblica di Polonia di proteggere con il divieto assoluto di pubblicità i farmacisti da eventuali pressioni esercitate dai proprietari di farmacie al fine di aumentare le vendite di taluni prodotti, la Corte la ritiene non valida giacché tali pressioni potrebbero comunque verificarsi a prescindere o meno dalla pubblicità, oltre al fatto che la Polonia potrebbe (se davvero tiene all'indipendenza dei farmacisti) legiferare in materia indicando le condizioni che consentono la pubblicità nel rispetto dell’etica professionale dei farmacisti.
Avv. Tommaso di Gioia
Patrocinante dinnanzi alle Magistrature Superiori, già docente nel Corso di Alta Formazione in Diritto Sanitario dell'Università di Bari, componente del Comitato degli Esperti della Scuola di Aggiornamento e della Scuola di Formazione Forense dell'Ordine degli Avvocati di Bari
Commento
Corte di Giustizia/sentenza del 19 giugno 2025
Al farmacista va sempre garantita la possibilità di pubblicizzare la propria farmacia e (soprattutto) i servizi che eroga
La Corte di Giustizia condanna la Polonia per la propria normativa restrittiva in materia di pubblicità delle farmacie ed afferma la libertà del farmacista di effettuare pubblicità sia riguardo alla propria farmacia, sia in relazione ai servizi che essa offre, sempre nel rispetto delle norme deontologiche
Massima
Farmacia - Inadempimento di uno Stato – Articolo 49 TFUE – Libertà di stabilimento – Articolo 56 TFUE – Libera prestazione dei servizi – Direttiva 2000/31/CE – Commercio elettronico – Articolo 8, paragrafo 1 – Servizio di comunicazioni commerciali fornito da un membro di una professione regolamentata – Normativa nazionale che vieta la pubblicità delle farmacie e dei punti di vendita farmaceutici nonché delle loro attività – Restrizione – Giustificazione – Tutela della salute pubblica – Infondatezza – Libertà di pubblicità della farmacia e dei servizi che offre
La legge polacca sul diritto farmaceutico vieta al farmacista in maniera assoluta qualsivoglia pubblicità, anche mediante internet, non solo delle farmacie, ma anche delle attività e dei servizi svolti all'interno, prevedendo un’ammenda fino a 12.000 euro per chiunque infranga la legge, al punto che le uniche informazioni ammesse sono quelle relative all’ubicazione delle farmacie ed agli orari di apertura.
A seguito di un serrato carteggio tra la Repubblica di Polonia e la Commissione europea, relativo all'illegittimità di tali prescrizioni, nel 2024 la Commissione ricorre dinnanzi alla Corte di Giustizia: è la causa C-200/24, decisa con la sentenza del 19 giugno 2025.
La Commissione sostiene che la normativa polacca è contraria alla disciplina europea ed articola il ricorso sulla base della violazione di tre norme:
1) l’articolo 8 paragrafo 1 della direttiva 2000/31, che consente a chi esercita una professione regolamentata di utilizzare servizi della società dell’informazione per promuovere le proprie attività,
2) l’articolo 49 TFUE, che garantisce la libertà di stabilimento,
3) l’articolo 56 TFUE, che garantisce la libera prestazione di servizi.
Per quanto concerne il primo motivo di ricorso va rammentato che la Corte di Giustizia, già nella propria “sentenza Vanderborght” del 4 maggio 2017 in causa C-339/15, al punto 42 afferma che l’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 consente a chi esercita una professione regolamentata di utilizzare servizi della società dell’informazione per promuovere le proprie attività e, ai punti 43 e 44 di tale sentenza, che le comunicazioni commerciali devono rispettare le regole professionali applicabili alla professione interessata, senza che tuttavia possa mai essere disposto un divieto generale e assoluto di qualsiasi forma di pubblicità online.
Ed infatti la Corte di Giustizia accoglie il primo motivo proposto dalla Commissione indicando che, se è vero che l'art. 8 paragrafo 1 della direttiva 2000/31 stabilisce che le comunicazioni commerciali vanno effettuate solo nel rispetto delle regole relative alla dignità e all’onore della professione regolamentata, nonché nel rispetto del segreto professionale e della lealtà verso i clienti e verso i colleghi, è anche vero che non può essere vietato in modo generale e assoluto ogni tipo di pubblicità online avente l'obiettivo di promuovere l’attività di una persona che esercita una professione regolamentata.
Ciò è tanto vero che il successivo paragrafo 2 del citato art. 8 prevede che gli Stati membri e la Commissione incoraggiano a elaborare codici di condotta aventi l'obiettivo di precisare quali informazioni possono essere fornite a fini della pubblicità, nel rispetto di dette regole professionali; ne discende, secondo la Corte, che il contenuto e la forma della pubblicità possono di sicuro essere inquadrati in regole attinenti alla professione, ma non possono affatto comportare un divieto generale e assoluto, come stabilito dalla legge polacca sul diritto farmaceutico.
Per ciò che riguarda il secondo motivo di ricorso, attinente alla libertà di stabilimento, ed il terzo motivo di ricorso, riguardante la libera prestazione dei servizi, la Commissione sostiene che il divieto assoluto di pubblicità priva sia le persone stabilite in Polonia e sia quelle stabilite in altri Stati membri che intendono aprire in Polonia una farmacia, della possibilità di informare delle loro attività i clienti, e ciò è particolarmente pregiudizievole per la seconda categoria di persone, per le quali l’accesso al mercato in Polonia è reso più difficile, con ciò compromettendo sia la libertà di stabilimento, sia la libera prestazione di servizi.
I due predetti motivi di ricorso vengono affrontati congiuntamente dalla Corte, che parte dalla premessa secondo cui devono considerarsi restrizioni alla libertà di stabilimento e/o alla libera prestazione dei servizi tutte quelle misure che “vietino, ostacolino o scoraggino l’esercizio delle libertà garantite dagli articoli 49 e 56 TFUE”.
Si ha una restrizione, quindi, quando le misure stabilite da uno Stato membro pregiudicano l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri: poiché una normativa nazionale che vieta in modo assoluto ogni tipo di pubblicità per una determinata attività in questo modo restringe la possibilità, per le persone che la esercitano, di farsi conoscere, secondo la Corte si deve ritenere che una tale normativa nazionale comporti una restrizione sia alla libera prestazione dei servizi, sia alla libertà di stabilimento, posto che gli operatori stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica di Polonia, devono compiere sforzi supplementari per farsi conoscere presso clienti residenti in Polonia se intendono aprire una farmacia in Polonia.
A questo punto la Corte passa a considerare se tale restrizione possa essere giustificata da una ragione imperativa di interesse generale che rispetti il principio di proporzionalità.
La Repubblica di Polonia, infatti, nel giudizio invoca il principio della tutela della salute pubblica, per giustificare le (acclarate) restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei servizi; tale principio della tutela della salute pubblica, secondo la Polonia, è valido e proporzionato, giacché è volto da un canto ad impedire il consumo eccessivo di medicinali e, dall’altro canto, a garantire l’indipendenza professionale dei farmacisti da pressioni che possano giungere da parte dei proprietari di farmacie.
Tali tesi, tuttavia, non vengono accolte dalla Corte, che al riguardo afferma un principio importantissimo se lo si applica alla “farmacia dei servizi”.
La Corte, infatti, afferma che le farmacie polacche offrono come servizio le campagne di screening, sicché il divieto di pubblicità, esteso anche ai servizi delle farmacie, è ingiustificato di per sé, perché non ha nulla a che vedere con il consumo di farmaci. Addirittura in una parte della sentenza è affermato che il divieto pubblicità sui servizi favorisce le farmacie presenti su un mercato da molti anni, a scapito di quelle più giovani che intendono entrare nel mercato mediante l'offerta reclamizzata di un “maggior numero di servizi o servizi di migliore qualità”.
Ciò significa che da questa pronuncia della Corte di Giustizia potrebbe trarsi il principio secondo cui una limitazione troppo marcata della pubblicità relativa ai servizi offerti dalle farmacie potrebbe porsi pure in contrasto con le regole della concorrenza.
Per quanto riguarda l'esigenza di contenere l'uso eccessivo di farmaci, poi, la Corte la ritiene non valida, visto che la pubblicità sull'offerta di essi può avvantaggiare le persone in cerca di un maggiore sconto sui farmaci, senza che ciò comporti un aumento della quantità di medicinali acquistati.
Peraltro le norme vigenti anche in ambito europeo sono chiarissime nel prevedere che la pubblicità di un medicinale deve favorirne l’uso razionale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà, e non può essere ingannevole, sicché con tali norme può procedersi a promuovere i medicinali senza tuttavia incitare al loro consumo eccessivo.
Per quanto riguarda infine l'esigenza manifestata dalla Repubblica di Polonia di proteggere con il divieto assoluto di pubblicità i farmacisti da eventuali pressioni esercitate dai proprietari di farmacie al fine di aumentare le vendite di taluni prodotti, la Corte la ritiene non valida giacché tali pressioni potrebbero comunque verificarsi a prescindere o meno dalla pubblicità, oltre al fatto che la Polonia potrebbe (se davvero tiene all'indipendenza dei farmacisti) legiferare in materia indicando le condizioni che consentono la pubblicità nel rispetto dell’etica professionale dei farmacisti.
Normativa
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